
Ieri ho partecipato, in rappresentanza del Consiglio regionale, alla cerimonia di inaugurazione del monumento che la città di Milano ha dedicato alle vittime delle foibe e dell’esodo istriano, giuliano dalmata. E’ giusto essere soddisfatti perché giunge al termine un percorso durato quasi vent’anni e che rende giustizia alla memoria di 250.000 italiani perseguitati e costretti a lasciare le loro terre.
Non va però dimenticata la storia e quello che è accaduto nel secolo scorso ai confini orientali dell’Italia. E’ giunto il tempo di una memoria condivisa e di una riconciliazione, difficile ma necessaria, tra i popoli che condividono alcune tra le terre più martoriate d’Europa.
La fotografia dell’inaugurazione di ieri va letta assieme a un’altra immagine, quella delle celebrazioni per il centenario dell’incendio del Nardini Dom di Trieste.

Entrambe queste immagini trovano poi una sintesi nella fotografia dei presidenti di Italia e Slovenia che si tengono per mano alla foiba di Basovizza.

Senza alcuna pretesa di essere esaustivo o persuasivo, provo a motivare il perché di queste mie affermazioni.
E’ un testo molto lungo, ma spero abbiate la pazienza di leggerlo.
Dobbiamo tornare al novembre 1918, quando, al termine della Prima Guerra Mondiale, l’esercito italiano entra a Trieste: la pace di Versailles aveva ratificato le richieste italiane sancite dal Patto di Londra del 1915 e l’intera Venezia Giulia, fino alle Alpi Giulie. Il confine includeva alcune cittadine costiere dell’Istria e le Isole del Quarnaro Cherso e Lussino. L’Italia si vide garantire il dominio sulla Dalmazia settentrionale fino al porto di Sebenico, sulle isole prospicienti, sul porto di Valona e sull’isolotto di Saseno. Il trattato di Versailles non aveva però assegnato all’Italia le città di Zara e Fiume e questo suscitò un moto di insoddisfazione che fu sintetizzato con l’espressione dannunziana della “vittoria mutilata”, uno dei miti fondatori del futuro Partito Fascista.
Dopo la firma del Trattato di Rapallo del 1920 tutta la regione litoranea slovena detta Primorska, viene annessa all’Italia: tra i 500.000 e i 700.000 sloveni e croati diventano cittadini italiani. Nonostante le solenni promesse, pubblicate nel decreto del governatore italiano della Venezia Giulia, il generale Carlo Petitti di Roreto, il cui testo viene letto persino nelle chiese, già dal 1920 la comunità slovena diviene bersaglio di attacchi squadristi e ha inizio così una pesante opera di snazionalizzazione: il 13 luglio del 1920, a Trieste, venne dato alle fiamme il Narodni dom – la casa di cultura slovena, edificio polivalente, progettato dall’architetto Max Fabiani, simbolo dell’ascesa economica e culturale della borghesia slovena triestina. L’edificio viene distrutto dalle fiamme della furia squadrista e fascista, l’incendio rappresenta una vera e propria cesura nella storia di Trieste e la fine della sua storia di convivenza tra culture diverse.
All’incendio del 1920 seguono, soprattutto dopo il 1922, altri incendi e pogrom, il divieto dell’uso della lingua slovena, la soppressione forzata delle scuole in lingua slovena e di tutte le attività culturali o sportive slovene: il regime fascista ha voluto italianizzare per decreto migliaia di nomi e cognomi sloveni di tutto il territorio della Venezia Giulia.
Gli anni successivi furono sempre più pesanti per la popolazione di lingua slovena, all’insegna di una politica fascista che si ispirava a proclami del genere: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone».
Il 6 aprile 1941 le forze dell’Asse, con cinquantasei divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare attaccano da ogni parte il Regno di Jugoslavia. Lo stato crolla, l’esercito si scioglie e la Jugoslavia viene smembrata.
La Slovenia settentrionale è assegnata alla Germania nazista, quella meridionale viene annessa all’Italia con la denominazione “Provincia di Lubiana”. L’Italia ingrandisce, a spese della Croazia, la provincia di Fiume e quella di Zara annettendosi anche la parte centrale della Dalmazia. La Croazia viene dichiarata formalmente uno stato indipendente: si insedia al governo il capo degli ustascia Ante Pavelic, un criminale di ideologia nazifascista. Il regime di occupazione della Jugoslavia da parte della Germania e dei suoi alleati fu spietato. Migliaia di persone vennero uccise e centinaia di villaggi incendiati.
Nei 29 mesi di occupazione italiana nella sola provincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civili e altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, trovarono la morte nei campi di concentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Croazia. Scomparve quasi il 4% della popolazione della provincia di Lubiana.
Con la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8settembre cambia tutto. Il Terzo Reich si annette i territori del confine orientale sottratti alla sovranità italiana.
Dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 le province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana furono riunite nella speciale zona di operazione definita Adriatisches Küstenland (litorale adriatico) che venne inclusa nelle strutture amministrative della Germania nazista.
In questo contesto, fin dai primi anni successivi alla presa fascista del potere, ha inizio la resistenza slovena, a partire dall’Istria. Già nel 1929 si ebbero le condanne, da parte del Tribunale Speciale di Pola, di 5 antifascisti croati: uno fu condannato a morte e gli altri a trent’anni di reclusione.
L’anno successivo il Tribunale Speciale riunito a Trieste condannò a morte 4 sloveni imputati di cospirazione contro l’Italia. Vennero fucilati il mattino successivo al poligono militare di Basovizza, non lontano dal luogo dove, al termine della guerra, verrà scoperta una delle principali foibe.
Già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, attraversò il vecchio confine e cominciò ad operare nella stessa città di Trieste. L’8 settembre 1943 il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nell’intera regione e si presentava come alternativa al regime nazifascista.
La Resistenza, tra il 1943 e il 1945, si sviluppò anche sul fronte italiano con contatti sempre più frequenti con i partigiani jugoslavi.
A Udine, tra il febbraio e l’aprile del 1945, i nazisti con la collaborazione attiva dei fascisti di Salò fucilarono 52 partigiani. L’asprezza del contrasto tra partigiani italiani e le mire espansionistiche jugoslave, portarono a uno dei più tragici episodi della Resistenza: nel febbraio del 1945 presso le malghe di Porzus, sopra Faedis, nel Friuli orientale, un gruppo di partigiani garibaldini massacrò, cogliendolo di sorpresa, l’intero comando della Brigata Osoppo, composta in prevalenza da partigiani che si riconoscevano nel movimento “Giustizia e Libertà”, accusato ingiustamente di tradimento. E’ il chiaro segnale di una tensione altissima tra partigiani di diverse appartenenze ideologiche, una peculiarità del confine orientale.
Tra la fine del 1943 e la primavera del 1945, in seguito all’occupazione di terre di confine da parte del movimento partigiano jugoslavo, il quadro si complica, fino a diventare drammatico, per gli italiani della zona.
Migliaia di italiani della Venezia Giulia caddero vittime di due ondate di violenza politica scatenate in due distinti momenti da elementi del Movimento di liberazione jugoslavo e dalle forze del regime del maresciallo Tito, salito al potere in Jugoslavia al termine della guerra vittoriosa contro il nazifascismo.
Almeno 5.000 persone scomparvero nei massacri delle “foibe”, dal nome delle voragini tipiche dei terreni carsici in cui venivano gettati i cadaveri e, in molti casi, persone ancora vive.
Le foibe più tristemente famose sono quella di Vines, presso Albona, in Istria, e il pozzo della miniera di Basovizza – oggi monumento nazionale – nei pressi di Trieste.
Ancora più numerosi e difficilmente quantificabili furono i morti nelle carceri e nei campi di concentramento jugoslavi.
Obiettivo principale dei massacri fu l’eliminazione dei “nemici del popolo”, cioè di chiunque si opponesse all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia e alla costruzione di un regime comunista.
Alla fine della guerra la Jugoslavia rivendicò molti territori che fino ad allora erano stati italiani, chiedendo anche la città di Trieste.
In attesa della definizione di questa vertenza, il territorio giuliano venne diviso in due parti: la Zona A, comprendente Trieste, venne sottoposta ad un governo militare anglo-americano; e la Zona B, fu assegnata al governo dall’autorità militare jugoslava. Soltanto nel 1954 la Zona A passò definitivamente all’Italia, mentre la Zona B rimase alla Jugoslavia.
La popolazione di lingua italiana dei territori passati sotto il dominio jugoslavo venne sottoposta a persecuzioni pesantissime, attraverso una sistematica opera di slavizzazione, e la quasi totalità degli italiani fu costretta ad abbandonare i paesi nei quali viveva da molte generazioni per avere salva la vita.
La prima città a svuotarsi fu Zara, abbandonata da larga parte della popolazione in seguito ai bombardamenti anglo-americani del 1944, che recarono gravissime distruzioni alla città. Gli italiani rimasti furono indotti a fuggire da un clima sempre più ostile.
Subito dopo la fine della guerra, iniziò a svuotarsi Fiume, stabilmente occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945.
Il governo di Tito avviò nei confronti degli italiani una politica assai dura, fatta di espropri mirati a colpire le posizioni economiche della piccola e media borghesia, di arresti e uccisioni, con lo scopo di eliminare qualsiasi embrione di dissenso politico.
Gli esodi di massa si intensificarono dopo il 1946, con la firma del trattato di pace a Parigi, che sancì il passaggio dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia.
La stessa sorte toccò agli italiani di Pola, dopo che le truppe anglo-americane lasciarono la città.
Con il 1956, data convenzionale della fine dell’esodo, il 90% della popolazione italiana di Fiume e dell’Istria, pari a oltre 250.000 persone, aveva dovuto abbandonare la propria terra.
Per le decine di migliaia di profughi che trovarono rifugio in Italia la vita fu estremamente dura.
Il governo italiano era del tutto impreparato ad accogliere una massa così imponente di profughi e una vera e propria politica di accoglienza venne approntata, purtroppo, con gravi ritardi.
Inoltre nel 1948 la condanna di Stalin contro Tito aveva modificato la posizione della Jugoslavia nello scacchiere internazionale, con la conseguenza di azzerare i toni della denuncia contro il governo di Belgrado e l’inizio un progressivo cambiamento nelle relazioni tra Italia e Jugoslavia.
I profughi dell’esodo diventarono così “politicamente” ingombranti e le condizioni in cui vennero ammassati in campi di assistenza allestiti in diverse parti d’Italia (nel Bergamasco, in Toscana, in Sardegna e nel Meridione) furono davvero indegne di un paese civile.
Sulla vicenda cadde un grave silenzio che solo in anni recenti è stato cancellato.
Spero che queste sommarie note di ricostruzione storica, che ho voluto mantenere, per quanto possibile, lontane da giudizi di parte, vi abbiano fatto comprendere come la vicenda del nostro confine orientale sia moto complessa e come gli opposti fanatismi abbiano seminato odio e morti per cui si fatica a trovare una memoria condivisa. Vi assicuro che è difficile parlare di questi avvenimenti nelle terre che dove sono stati vissuti; anche perchè che ci sono ancora troppi personaggi che si ostinano a soffiare su braci che non sono ancora spente.
Oggi Italia e Slovenia hanno scelto un destino comune nell’Unione Europea.
Credo sia questo il punto da cui ripartire, non certo per dimenticare quanto è accaduto, ma per far sì che la memoria degli immensi dolori vissuti non sia vana e possa consentire una riconciliazione autentica.
Purtroppo il tono di alcuni discorsi che continuano ad evocare la necessità di far pendere un ipotetico pendolo della storia da una parte o dall’altra, a mio giudizio, non fanno che seminare ulteriore tensione e creare altro potenziale odio.
Quello che è accaduto, da una parte e dall’altra non può in alcun modo essere giustificato, ma va capito senza fare e farsi sconti: non si può parlare di foibe e di esodo senza raccontare quello che è accaduto nei vent’anni precedenti e non ci si può limitare a condannare l’italianizzazione di quelle terre senza farsi carico di quanto è successo negli anni successivi.
Per questo faccio mie la parole del Presidente della Repubblica Mattarella nell’incontro con il suo omologo sloveno a Basovizza, nel luglio scorso: “la storia non si cancella, possiamo coltivarla con rancore, oppure farne patrimonio comune nel ricordo”.
Concludo queste mie (forse troppo) lunghe riflessioni ricordando lo scrittore Boris Pahor, sloveno naturalizzato italiano, che ha compiuto 107 anni ad agosto. Pahor lo scorso 13 luglio, ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e l’onorificenza slovena dell’Ordine per Meriti Eccezionali. Boris aveva sette anni all’epoca dell’incendio di Narodni Dom, di cui fu testimone, con la sorella. Le sue parole sono una testimonianza di come si debba fare memoria e andare oltre: “Dedico le onorificenze a tutti i morti che ho conosciuto nel campo di concentramento e alle vittime del nazifascismo e della dittatura comunista”.
Grazie
grazie per aver completato i ricordi storici.
Mi sono accorto a Gorizia negli anni scorsi che non tutti i ricordi sono scomparsi.