Cento anni fa si concludeva per l’Italia la Prima Guerra Mondiale.
Fu il compimento dell’unità del nostro Paese, ma fu anche la più tremenda carneficina della storia.
Fare memoria di quella che papa Benedetto XV definì “inutile strage” è importante, soprattutto ora in Europa che viviamo da 70 anni in pace.
La Prima Guerra Mondiale pare lontanissima e il suo ricordo rischia di diventare un mito. D’altronde, fin dai primi anni del dopoguerra si tentò di creare il Mito dell’Esperienza della Guerra che risultò poi “utile” a fomentare nuovi odi e violenze in nome del popolo.
Riporto qui di seguito il link al discorso che il Presidente della Repubblica ha pronunciato oggi a Trieste, sede delle celebrazioni nazionali dell’anniversario. Un discorso appassionato e onesto nel ricordare la brutalità della guerra, il contributo portato dalla popolazione civile e dalle donne in particolare e la necessità di ricordare le vittime di tutte le parti in guerra (significativo l’omaggio alle bandiere di tutti i paesi belligeranti). Da leggere.
Il link al video e al testo del discorso del Presidente della Repubblica
Vi propongo anche alcuni stralci di un libro che credo faccia riflettere sul modo in cui sono state raccontate e ricordate le guerre del ‘900, “Le guerre mondiali – dalla tragedia al mito dei caduti” di George L. Mosse, edito da Laterza nel 1990. Fanno riflettere, senza nulla togliere al dovere della memoria di chi in quei conflitti ha perso la vita.
Nel corso della Grande Guerra morì in azione, o a causa delle ferite riportate in battaglia, un numero di uomini più che doppio rispetto al totale dei caduti in tutti i conflitti di rilievo svoltisi tra il 1790 e il 1914. (…) Nella prima guerra mondiale morirono circa 13 milioni di uomini, mentre nella campagna di Russia (la più cruenta fino al 1914) Napoleone perse 400.000 uomini, ovvero una cifra inferiore di circa 600.000 unità a quella dei caduti su entrambi i lati del fronte durante la battaglia della Somme nel 1916 (una battaglia peraltro nient’affatto risolutiva). (George L. Mosse, Le Guerre Mondiali – dalla tragedia al mito dei caduti, 1990 Laterza, pgg.3-4)
La guerra fu resa sacra, fu resa un’espressione della volontà generale del popolo. (George L. Mosse, Le Guerre Mondiali – dalla tragedia al mito dei caduti, 1990 Laterza, pg. 35)
Nel suo tentativo di distogliere la memoria degli uomini dagli orrori della guerra, e di riorientarla invece verso la ricchezza di senso e la gloria della guerra stessa, il primo conflitto mondiale doveva dare al Mito della’Esperienza della Guerra la sua espressione più compiuta e attraente. I volontari erano stati tamburini annunciatori del mito della guerra; ma milioni di uomini giunsero a condividere il loro entusiasmo e la loro esperienza. I simboli che dovevano foggiare il Mito dell’Esperienza della Guerra, e render concreto l’astratto, erano andati formandosi lungo più di un secolo. Ora, essi erano pienamente insediati. Al tempo stesso, se le guerre precedenti avevano contato i morti a decine di migliaia, nulla aveva preparato la generazione del 1914 all’incontro con la morte di massa che la aspettava. Qui il compito del mito – trascendere la morte in guerra – assunse un’urgenza nuova e pressante. La prima guerra mondiale diede dunque al Mito dell’Esperienza della Guerra una potenza nuova, le cui conseguenze politiche sarebbero state avvertite negli anni successivi. (George L. Mosse, Le Guerre Mondiali – dalla tragedia al mito dei caduti, 1990 Laterza, pgg. 54-55)
Facendo entrare la guerra nella vita della gente, il processo di banalizzazione non innalzava né placava le menti. Esso dava piuttosto a uomini e donne la sensazione di padroneggiare gli eventi. Facendo entrare la guerra nella vita della gente, il processo di banalizzazione si dimostrò indispensabile al Mito dell’Esperienza della Guerra. E tuttavia il mito in sé preso, in quanto fondamento di una religione civica, era l’opposto della banalizzazione. La presenza della guerra nella vita della gente condusse ad una certa brutalizzazione della lotto politica postbellica. Se alcuni vedevano negli sport, nell’alpinismo e nella ginnastica i surrogati della guerra ch’era finita, era anche possibile guardare alla politica come alla continuazione della Grande Guerra in tempo di pace. Dapprincipio, pochi osarono esprimere pubblicamente quest’idea. E tuttavia una nuova durezza, e persino brutalità, fece la sua comparsa sulla scena politica postbellica. E se la crisi sociale, economica e politica svolse nel processo di brutalizzazione un ruolo fondamentale, la continuazione della guerra in tempo di pace fornì buona parte dello sfondo e del contenuto del nuovo stile di condotta politica. (George L. Mosse, Le Guerre Mondiali – dalla tragedia al mito dei caduti, 1990 Laterza, pg. 172)