Il 5 giugno 1968, nella cucina di un hotel di a Los Angeles veniva ucciso Robert Kennedy, il senatore democratico che aveva appena vinto le primarie in California e si apprestava a lancora la sfida per la Casa Bianca. Tre giorni dopo la sua morte, un treno funebre trasportò il suo corpo da New York City a Washington D.C., lungo il tragitto migliaia di americani resero omaggio a quello che fu l’ultimo viaggio del senatore.
Robert Kennedy aveva suscitato speranze e suggerito visioni per un’America diversa e molte delle sue parole rivestono ancora oggi una straordinaria attualità.
In queste settimane molti incontri e pubblicazioni hanno ricordato Bob Kennedy, segnalandovi “Parola di Bob”, il bel libro curato da Alberto Mattioli e Mauro Colombo per In dialogo, vi invito a leggere alcuni stralci di un discorso sul welfare che Kennedy pronunciò a Los Angeles il 19 maggio 1968.
Parole, come dicevo, che sono attualissime e che accrescono il rimpianto per la prematura scomparsa del senatore.
Il welfare è molte cose diverse per persone diverse. Per colui che riceve il servizio può essere la differenza tra la vita e la morte per inedia, tra un’abitazione e l’essere senza dimora, tra il vento freddo e il cappotto di un bambino. Per il contribuente, che vede le conseguenze dell’inflazione sul costo della vita e che paga per la propria casa e per l’educazione dei propri figli, il welfare può apparire come un ingiustificato sovraccarico su un sistema tributario già opprimente. Per alcuni politici, pronti a ricorrere a semplificazioni e a confondere le idee sulla questione, può essere un mezzo per ottenere facilmente popolarità. […]
Il conto sta crescendo ogni giorno di più.
Data tutta questa enorme spesa, non dovremmo almeno attenderci che coloro che ricevono il servizio siano soddisfatti? Eppure, di fatto, non lo sono. Sono scontenti del funzionamento del welfare così come lo è chiunque negli Stati Uniti. Si tratta di volgare ingratitudine oppure è un indicativo segnale di come il sistema del welfare abbia fallito? Cosa intendiamo fare, dunque, di un sistema che non sembra soddisfare né il donatore né l’utente e che avvelena tutti coloro che ne entrano in contatto?
Il problema più grave risiede nel nostro stesso concetto di welfare. […] Il welfare cominciò come un indispensabile programma di assistenza per coloro che non sono abili nel lavoro. L’abbiamo poi trasformato nella facile risposta al problema complesso, ma non insormontabile, della disoccupazione. […]
Più in generale, il welfare ha fatto molto per dividere il nostro popolo, per alienare gli uni dagli altri. In parte questa separazione deriva dal comprensibile risentimento di coloro che pagano le tasse e vedono il proprio benessere andare a rotoli e l’imposta sulla proprietà aumentare. Ma vi è ancora più risentimento da parte dei poveri, di coloro che ricevono la nostra carità. In una certa misura, questo risentimento deriva dalla brutalità del sistema stesso, dall’azione di un indiscreto burocrate, un onnipotente amministratore che decide dalla sua scrivania chi merita e chi no, a chi sarà concesso di vivere ancora per un mese e chi potrà morire di fame la prossima settimana. […]
La radice del problema, comunque, sta nella stessa condizione di dipendenza e di inutilità. Essere disoccupati significa non avere niente da fare, il che comporta poi non avere nulla da condividere con gli altri. Essere senza lavoro, essere inutili per i propri concittadini vuole dire, in verità, essere l’Uomo Invisibile di cui ha scritto Ralph Ellison. […]
Spesso citiamo l’avvertimento di Lincoln secondo cui l’America non sarebbe potuta sopravvivere metà schiava e metà libera. Non può sopravvivere neppure mentre milioni di nostri concittadini sono schiavi della dipendenza e della povertà, in attesa della grazia da parte di quelli che firmeranno assegni per loro. Fratellanza, comunità, patriottismo condiviso: questi valori essenziali della nostra civiltà non provengono dal mero acquistare e consumare insieme. Discendono piuttosto da un senso comune di autonomia individuale e di impegno personale. Derivano dal lavorare insieme per costruire un paese, ed è questa la risposta alla crisi del welfare.
La risposta alla crisi del welfare è lavoro, impiego, autosufficienza e integrità della famiglia; non una massiccia estensione del welfare; non un nuovo flusso di assistenti sociali che diano consigli ai poveri. Abbiamo bisogno di lavoro, di impiego che restituisca dignità con una paga decente; quel tipo di impiego che consente a un uomo di dire alla propria comunità, alla propria famiglia, al proprio paese e, cosa ancora più importante, a se stesso, <
È un mito che tutti i problemi della povertà si possano risolvere con una definitiva estensione del sistema di welfare che garantisca a tutti, indipendentemente dalla loro situazione particolare, un certo reddito dal governo federale. Ogni schema di questo genere, preso di per sé, semplicemente non può procurare il senso di autosufficienza e di partecipazione alla vita della comunità che è essenziale per i cittadini di una democrazia. […]
Di sicuro, tutte le proposte per vari sistemi di sostegno dei redditi meritano uno studio accurato. Ma se c’è qualcosa che abbiamo appreso negli ultimi tre anni è che non possiamo fare tutto in una volta, che dobbiamo capire, stabilire e condividere una chiara percezione delle priorità nazionali. In questo caso, la priorità è il lavoro. Dare la priorità al reddito vorrebbe dire ammettere la sconfitta sul fronte di battaglia decisivo. […]
Lavoro è una parola molto terrena e poco affascinante. Eppure è, in un senso reale, il significato di tutto ciò per cui esiste una nazione, per quelli di noi che vivono in ricchi sobborghi e per i loro figli non meno che per i bambini nel ghetto. Gli esseri umani hanno bisogno di uno scopo. Ne abbiamo bisogno come individui, abbiamo bisogno di percepirlo nei nostri concittadini, ne abbiamo bisogno come società e come popolo.