Carcere e lavoro: l’eredità del maresciallo Di Cataldo

23 Aprile 2018 di fabio pizzul

Nel carcere milanese di San Vittore si è ricordato nei giorni scorsi Francesco Di Cataldo, vicecomandante della polizia penitenziaria della casa circondariale ucciso dalle BR il 20 aprile 1978.
A lui è stata intitolato il carcere milanese e a lui è andato il commosso ricordo di coloro che lo hanno conosciuto come pioniere del lavoro in carcere e della possibilità di una reclusione che portasse al recupero e non solo alla punizione dei detenuti. 

Se oggi abbiamo un carcere come Bollate, in cui i detenuti possono seguire avanzati percorsi di formazione, lavoro e reinserimento sociale lo dobbiamo anche all’impegno di Francesco De Cataldo, che già 40 anni fa aveva ben chiara la necessità di costruire all’interno del carcere percorsi di socializzazione e reinserimento per promuovere una maggiore sicurezza sociale.
Fu proprio questo suo impegno a trasformarlo in obiettivo da colpire per le BR che, nei loro deliranti comunicati, lo definirono “torturatore di detenuti” e “responsabile di tutti gli assassinii diretti e indiretti dei vari detenuti, che con la complicità dei medici sono stati archiviati come collassi e infarti“, per giungere “alla distruzione e al massacro dei compagni e dei proletari imprigionati“.
Di Cataldo lavorava per un carcere più umano e “democratico”, ovvero aderente al dettato costituzionale, e aveva costruito relazioni di stima con molti detenuti e con le loro famiglie. Per questo sua atteggiamento costruttivo e lungimirante fu ritenuto un nemico da chi teorizzava la necessità dello scontro frontale contro uno stato sempre e comunque inteso come oppressore e nemico del popolo.
A quarant’anni di distanza molte delle intuizioni e dei sogni di Di Cataldo sono diventati patrimonio dell’intero sistema carcerario italiano, anche se il lavoro e il reinserimento sociale per tutti i detenuti rimangono obiettivi lontani da raggiungere.
La memoria del maresciallo Di Cataldo rimane un impegno e una responsabilità per tutti coloro che lavorano a San Vittore in un clima che non è certo quello degli anni di piombo, ma che sconta problemi enormi come il sovraffollamento, le carenze di organico e la fatiscenza di una struttura come San Vittore.
Il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio e non la normalità per l’esecuzione della pena, ma l’opinione pubblica è ancora lontana da questa consapevolezza e preferisce nascondersi dietro slogan e semplificazioni all’insegna di una presunta sicurezza che non si costruisce certo con atteggiamenti autoritari, ma con buone relazioni e forti reti sociali (anche in carcere).

Il ricordo del maresciallo Di Cataldo in una lettera dal figlio Alberto

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