Questa mattina ho partecipato, nel carcere di Opera, a un incontro di presentazione di un dossier sugli stranieri africani in carcere pubblicato dal mensile “Nigrizia”. Oltre a proporre i dati riguardo la crescente presenza di africani nelle nostre carceri, l’incontro ha permesso di ascoltare i racconti di alcuni detenuti che hanno confermato come, per molti di loro, il carcere è stato un approdo quasi inevitabile. Il carcere si basa su regole stabilite nel 1975, ma da allora il mondo, e con esso le dinamiche migratorie, sono completamente cambiati. Il carcere diventa spesso oggi una sorta di parcheggio per persone che non possono accedere a pene alternative perché prive di riferimenti sociali e familiari in Italia.
Il dossier di “Nigrizia”
I numeri dicono che, a fronte di una percentuale di stranieri presenti in Italia che si attesta attorno all’11%, la percentuale di detenuti stranieri è superiore al 30%, con punta del 40 e oltre in Lombardia e nel Nord più in generale. C’è chi interpreta questi dati come un indice della maggiore propensione dei non italiani a delinquere, ma la realtà dice è molto più probabile che uno straniero finisca e rimanga in carcere per le condizioni sociali in cui vive, per la minore possibilità di pagare avvocati difensori di buon livello e per l’assenza di reti sociali che consentano l’applicazione di pene alternative. Per non parlare delle difficoltà che un detenuto straniero incontra a fine pena, nel momento in cui deve rientrare in una società in cui non ha riferimenti e certezze.
Le storie di detenuti africani sono, in questo senso, paradigmatiche.
Hassan (nome di fantasia) nel 1999 viveva presso i suoi nonni in Nigeria; suo padre e sua madre, assieme a tre sorelle e quattro fratelli, vivevano in un altro villaggio. Una domenica Hassan decide di far visita alla sua famiglia, ma arrivando al villaggio trova i suoi familiari a terra in un lago di sangue. Nessuno era rimasto in vita. Disperato, vede arrivare degli uomini con dei lunghi coltelli che si mettono a inseguirlo. Seppur ferito alla schiena, Hassan riesce a nascondersi in un vicino bosco, dove, terrorizzato, passa tre giorni prima di fuggire tornando alla casa dei nonni. Qui apprende che il massacro è dovuto al fatto che suo padre, musulmano, aveva sposato una donna cristiana e questo ha scatenato l’ira della parte più radicale della comunità islamica. I nonni dicono ad Hassan che anche lui è in pericolo e lo invitano a fuggire. Da allora, rimasto solo, tenta per tre volte di raggiungere l’Europa passando da Gibilterra, ma viene respinto. Lo stesso accade lungo la rotta libica per altre quattro volte, finchè riesce ad attraversare il mare ed approda in Italia. Qui si arrangia come può e finisce in mano alla malavita. Per questo è in carcere.
Said (nome di fantasia) a 11 anni ha lasciato il Marocco con suo fratello più piccolo. Durante la traversata del Mediterraneo il fratello muore e Said approda in Italia da solo, diventando uno dei tanti minori che vivono come fantasmi sul nostro territorio. Trova dei lavori saltuari, ma finisce per diventare manovalanza dello spaccio. Diventato maggiorenne entra ed esce dal carcere varie volte, finche non diventa lui stesso consumatore di droga. La tossicodipendenza lo trasforma in una sorta di zombi, senza alcun interesse, se non quello di procurarsi la roba. Finisce ancora in carcere e, questa volta, viene preso in carico dai servizi per i tossicodipendenti e gradualmente prende consapevolezza della sua situazione e intraprende un cammino di recupero per il quale è molto grato al carcere.
Sono due delle tante storie possibili, una più allucinante dell’altra.
Non si vuole in alcun modo giustificare gli errori commessi, per i quali è giusto che la pena venga scontata, anche in carcere.
Non si può però nemmeno tacere del fatto che il carcere stesso diventa una sorta di ultima spiaggia per farsi carico di povertà e problemi che non sempre richiederebbero la privazione della libertà.
L’allarme sociale per la microcriminalità e il degrado che la accompagna porta a considerare rassicurante la soluzione del carcere, che toglie dalla vista dei cittadini i problemi, ma non li risolve di certo.
Carcere e stranieri diventano così una miscela esplosiva che nessuno intende maneggiare in questi tempi di scarso coraggio politico e di grande impegno per conquistare un consenso volubile e di brevissimo respiro.
C’è voluto un mensile che si occupa di Africa per alzare il velo sull’Africa dolente che abbiamo tra noi, anzi, nelle nostre carceri.