In questi giorni, complice un’agenda meno affollata di appuntamenti, ho avuto modo di leggere “Aldo Moro – Lo statista e il suo dramma”, biografia del politico democristiano ucciso dalla BR scritta da Guido Formigoni e pubblicata da “Il Mulino”. Un volume che incute timore per la mole (quasi 500 pagine), ma che ho letto con crescente interesse e soddisfazione. Ve lo consiglio.
Formigoni traccia un profilo completo di Moro, dalle sue esperienze giovanili alla drammatica conclusione della sua vita, recuperando le sue convinzioni culturali e inserendole all’interno di un percorso politico che troppo spesso è stato liquidato, nelle rappresentazioni giornalistiche, come complicato e poco propenso alla decisione, basti pensare alla fortunata ma limitativa definizione delle “convergenze parallele” coniata da Eugenio Scalfari all’inizio degli anni ’60.
Personalmente conoscevo già gran parte delle vicende affrontata da Formigoni, vuoi per averle studiate, vuoi per averle vissute da giovanissimo, ma poterle ripercorrere attraverso il racconto e l’interpretazione dello storico mi è stato molto utile per recuperare una dimensione più distaccata e approfondita riguardo il ruolo di quello che giustamente l’autore qualifica come “statista”.
Formigoni definisce efficacemente Moro come “politico della parola se mai ce ne sia stato uno, [che] si affacciò timidamente all’era della politica e della comunicazione di massa, cercando di mantenere il suo schema logico e la sua volontà di convincere razionalmente il pubblico e l’elettorato”. Siamo lontanissimi dalla rappresentazione odierna della politica, non solo per lo stile e la forma: Moro aveva in mente un progetto che perseguiva pazientemente confrontandosi con interlocutori che spesso è riuscito a trascinare dall’ostilità alla condivisione, se non proprio alla convinzione. Fu così per l’apertura a sinistra e il primo centro sinistra organico e per il progressivo coinvolgimento del Partito Comunista che drammaticamente giunse a coronamento con il voto al governo Andreotti proprio nel giorno del suo rapimento.
Nel volume si coglie anche, al di là della condivisione delle varie scelte di Moro, il suo lavoro per l’unità della DC e la sua preoccupazione per il consolidamento della fragile democrazia italiana, anche attraverso l’ascolto e la comprensione dei fermenti sociali che caratterizzarono gli anni ’60 e ’70.
Molti aspetti della vicenda di Moro rimangono aperti ad approfondimenti e giudizi, ma il pregio del volume di Formigoni è senza dubbio quello di aver voluto dare uno sguardo d’insieme alla sua complessa e articolata esperienza umana e politica. Nelle pagine si intuisce un giudizio sostanzialmente positivo sul contributo, non sempre riconosciuto, che Moro seppe dare alla storia della nostra Repubblica, assieme a una neppure troppo velata nostalgia per una politica razionale e riflessiva che faceva della parola un’occasione di incontro e costruzione e non, come accade sempre più spesso, di scontro e delegittimazione reciproca.
Un libro da leggere per recuperare un po’ di passione per la politica (Formigoni sottolinea amaramente che Moro continuò a farla anche da ostaggio delle BR). Una politica che deve riconoscere il suo limite e recuperare un’ispirazione ideale che l’individualismo e i diversi populismi rischiano di seppellire.