Una misura di quanto uno Stato dilapida il potenziale delle nuove generazioni. Così è stato definito il tasso dei NEET (not in Education, Employmen or Trainig), i giovani che non partecipazo a percorsi di istruzione o formazione e nemmeno stanno svolgendo un’attività lavorativa, nel corso del primo convegno nazionale dedicato al tema.
L’indicatore dei NEET è espressione delle difficoltà della transizione scuola lavoro e denuncia l’inadeguatezza degli strumenti di incontro tra domanda e offerta, oltre che l’assenza di strumenti per orientare e supportare i giovani nella ricerca stessa del lavoro.
Il Costo dei NEET, secondo stime dell’Eurofund, corrisponde a circa il 2% del PIL in Italia, pari a un valore assoluto di circa 36 miliardi ei euro.
L’incidenza del fenomeno nella fascia 15-29 anni era alta già prima della crisi (circa 19%), è salita fino al 26% nel 2014 per assestarsi poi al 22,3% nella prima metà del 2016. Stiamo parlando di 2 milioni e 200mila giovani italiani.
Il fenomeno è stato scandagliato anche dall’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, svolta nelle scorse settimane. I primi dati, ancora da elaborare nel dettaglio, rivelano come meno del 20% dei NEET italiani non stia cercando lavoro, di questi, oltre la metà degli uomini e quasi un terzo delle donne dichiara che accetterebbe subito un lavoro che gli venisse offerto.
I NEET maschi si adattano di più, avendo più esigenza di lavorare e meno vincoli di impegni familiari.
I giovani di questa “categoria” dimostrano anche maggiori blocchi nelle scelte di transizione alla vita adulta, soprattutto in campo familiare.
Il caso Italia, spiega il demografo dell’Università Cattolica Alessandro Rosina, è del tutto particolare, perché il numero dei NEET viene mantenuto elevato anche “dai giovani con carenti competenze e in condizione di disagio sociale, a rischio di marginalizzazione permanente”. Ma anche neodiplomati e neolaureati con buone potenzialità ma tempi lunghi di collocazione sul mercato del lavoro segnalano l’ormai cronica difficoltà del sistema produttivo italiano a valorizzare il capitale umano del nostro Paese.
La sfida è chiara, almeno da quanto è emerso nella due giorni milanese di approfondimento: dobbiamo decidere se in Italia le nuove generazioni sono le principali vittime di un Paese rassegnato al declino o se, invece, vogliamo che siano le risorse principali di un Paese che vuole tornare a crescere e ad essere competitivo. Se la scelta è questa, è necessario destinare ai giovani maggiori risorse e politiche chiare per metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.
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