Registro con piacere che le mie considerazioni sull’ipotesi di veder riconosciuta la lingua lombarda attraverso un articolo della legge di riordino della cultura in Lombardia hanno suscitato, come auspicavo, un po’ di dibattito. Il fatto che le reazioni giungano differite nel tempo (il post risaliva al 18 luglio) e siano così concentrate, lascia qualche dubbio sulla spontaneità, ma nulla toglie all’interesse delle opinioni espresse.
Mi pare quindi utile esprimere qualche ulteriore pensiero, in attesa di maturare una decisione definitiva riguardo il voto che saremo chiamati a dare all’inizio di settembre in commissione.
Non ho nulla contro gli idiomi locali, tanto meno contro quelli lombardi. Credo, anzi, che il recupero di una tradizione dialettale sia quanto mai opportuno e positivo per promuovere una coesione sociale e culturale legata al luogo in cui si vive.
Ben venga, dunque, l’ipotesi di inserire in legge la possibilità di sostenere e promuovere la conoscenza e l’utilizzo delle parlate territoriali. Questo aspetto non è in discussione.
L’unico aspetto che lascia perplessi è quello relativo alla definizione di “lingua lombarda”. Lascio il dibattito culturale a linguisti ed esperti e mi concentro sull’aspetto istituzionale.
La legge nazionale 482 del 1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, stabilisce che “la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.
La legge prevede l’insegnamento delle lingue riconosciute nelle scuole dei territori interessati e stabilisce anche che possano essere utilizzate nelle attività istituzionali degli enti dei territori stessi.
La lingua lombarda non è riconosciuta dalla legge 482/1999.
Qui sta il punto.
Una regione, di sua iniziativa, non ha la competenza per riconoscere ufficialmente una lingua.
Qual è il problema? Potrebbe giustamente chiedere qualcuno.
Il mio dubbio è che si voglia introdurre un riconoscimento istituzionale del lombardo attraverso uno strumento legislativo regionale che non ha la possibilità di farlo.
Per questo, la mia proposta in commissione è stata quella di inserire un’espressione meno equivoca come “sistema linguistico lombardo” o qualcosa di simile. Questo avrebbe fugato ogni equivoco in ordine alla volontà di uscire dalle competenze della regione per imporre un riconoscimento che può essere garantito solo da legge regionale.
A domanda precisa, i tecnici della direzione cultura hanno affermato in commissione che l’utilizzo dell’espressione “lingua lombarda” è una scelta esclusivamente politica.
Ben vengano, dunque, tutte le azioni volte al recupero e alla promozione delle parlate tradizionali, ma evitiamo qualsiasi forzatura istituzionale che potrebbe, tra l’altro, portare a un conflitto di competenze con lo Stato. La fretta di approvare la legge di riordino prima del referendum costituzionale mi pare un indizio in ordine alla volontà di creare un potenziale conflitto prima che entri eventualmente in vigore la clausola di supremazia prevista dalla riforma.
I miei dubbi riguardo l’articolo “incriminato” sono quelli che ho appena espresso.
Sarei assolutamente d’accordo sulla promozione delle parlate tradizionali, ma vorrei evitare che il voto mio e del gruppo PD venisse utilizzato come arma di polemica anti governativa.
Sono troppo sospettoso?
Per togliermi ogni dubbio, modifichino la rubrica dell’articolo ed evitino di parlare di “lingua lombarda” e sarò molto volentieri della partita.
Riporto qui di seguito i messaggi che mi sono arrivati su questo tema e vi esorto a darmi ulteriori elementi di riflessione in vista del voto in commissione (definitivo, visto che poi in aula il provvedimento non potrà essere emendato) di inizio settembre.
31 luglio
Sono piddina da una vita e leggere articoli come questi che spitano senza cognizione di causa contro all’identità linguistica lombarda mi fa letteralmente schifo. Ma si vergogni una buona volta.
Anna Maria Riva
1 agosto
Penso che lasciare la questione della tutela linguistica in mano alla Lega sia un grave errore. Praticamente il PD sta regalando la gestione di un intero patrimonio (quello linguistico della regione) al partito avversario. Se la paura è quella che la lingua lombarda venga strumentalizzato dalla Lega, non c’è nulla di peggio di lasciarla al suo monopolio.
Se il PD inizierà a parlare serenamente di lingua lombarda, la Lega non saprà più che pesci pigliare e perderà uno dei suoi capisaldi.
Michele Ghirardelli
1 agosto
Il lombardo (proprio come il piemontese e l’emiliano) è una variante della lingua gallo-italica o padana (termine da intendersi senza connotazioni leghiste). E tutti andrebbero tutelati – così come ovviamente ogni altra varietà linguistica del Paese. Per la valutazione politica d’accordo col sig. Ghilardelli.
Roberto Batisti
1 agosto
Io sono convinto che questa “forzatura” (cioè il riconoscere per legge la lingua lombarda) poi in realtà tanto forzatura non sia. Qua non si tratta di imporla al calabrese migrato nelle valli lombarde in cerca di lavoro né si tratta di sostituirla all’italiano (la cui importanza nel mondo Lombardo è ormai innegabile)… si tratta solo di approvare una legge regionale che ancora una volta va a sopperire alle enormi lacune delle leggi centralizzate italiane, si tratta solo di adeguare la situazione cultural-politica italiana a quella d’oltralpe. Il motivo per il quale questa legge CI VUOLE è proprio perché fa scalpore parlare di “lingua lombarda”. Occorre agire il prima possibile su questa visione del tutto distorta della realtà linguistica italiana (non solo lombarda), una visione che al di fuori dei nostri confini statali è ridicolmente assurda: stiamo di fatto negando la realtà. Ecco perché la legge ci vuole! E francamente da parte del PD tutto questo astio verso il Lombardo lo trovo alquanto triste: il PD si è fatto avanti, negli ultimi decenni, per la salvaguardia del Piemontese, del Veneto, del Ligure… però del Lombardo no, perché? Avete cosí schifo della Lega da averlo anche per il Lombardo? Non sarà che forse se cominciate a “fare vostro” anche il Lombardo, insieme alle altre lingue minoritarie, lo stesso diventi sempre meno monopolio della Lega? Suvvia!
Micheal Dallera
1 agosto
Buona sera. Rispondo all’invito di un amico a far sentire anche la mia voce. Sarò quasi breve. Conosco personalmente numerosi linguisti che non hanno alcun problema a dichiararsi allineati con l’UNESCO in merito al ricco patrimonio linguistico italiano, un unicum europeo da valorizzare proprio come il ricco e variegato patrimonio artistico della nostra penisola.
La lingua lombarda con le sue varietà esiste e non è difficile capirlo (oggi, volendo, a parte i libri di linguistica, ci sono anche molti video su youtube che la documentano). Quanto alla letteratura in questa lingua, nel tempo e nello spazio, siamo haimè molto ignoranti in merito ma, mi creda, c’è molta più letteratura di qualità in lingua lombarda che in friulano o in grecanico. Senza offesa per nessuno.
I nostri nonni in Lombardia hanno fatto fatica ad imparare l’italiano, non perchè fossero stupidi ma perchè la distanza linguistica tra toscano (italiano) e la loro lingua madre era grande, un pò come se Lei cercasse oggi di imparare un altra lingua potendola parlare solo a scuola…mentre tutto intorno non c’è…diciamo che oggi, con radio, tv e internet anche imparare bene una lingua è più semplice.
A livello fonetico, grammaticale, sintattico, morfologico i linguisti sapranno darle le spiegazioni scientifiche che cerca. Io mi fido di loro così come mi fido di chi mi dice che la terra è rotonda perchè scientificamente provato o chi mi dice che esistono gli atomi (mi fido perchè io non li ho mai visti, non so Lei). In questo mondo globalizzato credo sia bello riscoprire la propria cultura, così recente e coì antica senza paura e senza vergogna, una riscoperta sana e legittima della propria identità che nessuno di noi può scegliere.
Sarei lieta se lo sforzo fosse condiviso tra le parti politiche perchè qui si agisce per il bene di tutti e dovrebbe esser così per tutte le lingue citate dall’UNESCO nel nostro paese. Ci sarebbe altro da dire ma mi fermo qui. Le auguro un ottimo futuro. Buon lavoro, cordialmente,
Simona Scuri
1 agosto
Buongiorno,
le scrivo riguardo al suo post su “la lingua lombarda” presente sul suo blog. Non posso definirmi un’esperta in materia ma l’argomento mi interessa molto; inoltre, mi sono laureata in Scienze Linguistiche e, al momento, sto svolgendo un dottorato di Linguistica presso le università di Bergamo e Pavia. In particolare, mi occupo di dialettologia e sociolinguistica per cui, pur non essendo un’esperta, possiedo qualche strumento teorico per trattare la questione. Aggiungo una cosa: sono un’elettrice di (centro)sinistra da sempre e ho ben poca simpatia per rivendicazioni locali varie.
Le scrivo fondamentalmente per due cose:
1. Per fare un discorso sull’argomento lingua/dialetto credo sia necessario chiarire cosa si intenda per lingua e cosa per dialetto; per quanto mi riguarda, credo (e non solo io!) che una distizione vada fatta non in termini linguistici ma sociolinguistici: una lingua può essere utilizzata in tutti i domini funzionali (o situazioni comunicative: alla posta, dal medico, in famiglia, col professore universitario), il dialetto no. Non vi è alcuna connotazione negativa o positiva ma una semplice descrizione dello stato delle cose oggi in Italia. In Lombardia si parla l’italiano regionale lombardo (eventualmente con le sue varianti, come l’italiano di Bergamo o quello di Milano) e diversi dialetti locali (più o meno diversi tra loro, più o meno prestigiosi). Questo punto è centrale per osservare dalla, per me, giusta prospettiva un articolo come quello considerato.
2. Credo che, qualunque scelta politica si decida di prendere sull’argomento, sia fondamentale scegliere gli interlocutori; per la comunità scientifica dei linguisti, i dialetti italiani sono un patrimonio preziosissimo che va raccolto, conservato, studiato e descritto prima che (e solo per alcuni) insegnato, promosso, … Essendo la lingua un fatto sociale però, ovviamente, bisogna confrontarsi con la comunità linguistica dei parlanti dando ad essa il giusto peso. Non si tratta di esperti, magari di appassionati. Credo che, per non cedere a derive che farebbero gioco solo a rivendicazioni locali, sia fondamentale relazionarsi con la comunità scientifica al fine anche di ricavare dei frutti validi dai progetti a cui questa legge fa riferimento e non le ennesime produzioni sterili che servono, tutto sommato, solo a chi le produce (nel peggiore dei casi a fare propaganda). Insomma, un conto è destinare dei fondi per raccolte dati, indagini linguistiche e studi toponomastici e un conto è l’ora a scuola in cui si insegna il dialetto o il concorso di poesia. In Lombardia ci sono numerosi docenti universitari che si occupano di linguistica, credo debbano essere un punto di riferimento centrale e imprescindibieMi scuso se sono stata prolissa ma l’argomento mi sta molto a cuore e, purtroppo, vedere destinati fondi (spesso regionali) in progetti davvero mal pensati e con scarsa strutturazione scientifica è qualcosa che mal sopporto. Proprio perchè ho a cuore i dialetti. La destinazione di fondi per “i dialetti” credo che, in sè, sia una cosa molto positiva ma ritengo fondamentale individuare quali siano i metodi, gli interlocutori e i fini.
Rimango a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti,
Buon lavoro
Silvia Ballarè
Caro Pizzul, ho cercato di rispondere alle riflessioni del post del 18 luglio (che purtroppo ho letto solo l’altro ieri) in questo articolo: http://patrimonilinguistici.it/lingua-lombarda-risposta-a-fabio-pizzul/
Sulle altre considerazioni, più “politiche” e “istituzionali”: se la Lega intende usare “lingua” solo in funzione politica, è un problema suo. Ciò non toglie che il termine più corretto per denominare il lombardo (e non solo!) sia proprio quello. E il PD dovrebbe, sia a livello nazionale che regionale, avere una maggiore consapevolezza su questo aspetto. Non credo che sia accettabile che, nel XXI secolo, si possa ancora concepire una distinzione tra lingue di serie A e di serie B, tra quelle degne di ogni onore e altre che non hanno nemmeno il diritto di essere chiamate col proprio nome, ma solo con arzigogolati giri di parole. E chi meglio del Partito Democratico può finalmente archiviare una legge maldestra come la 482/99 (criticatissima anche da un gran numero di linguisti italiani), per farne una più giusta e completa? Chi meglio del PD può mettere fine alle discriminazioni linguistiche, le uniche ancora accettate nel campo progressista?
Io ritengo che se gli ostacoli fossero veramente quelli esposti nel post, sarebbero facilmente superabili con un po’ di volontà politica (per esempio, se la tutela del lombardo fosse un qualcosa di sentito da gran parte dei partiti regionali). Ho l’impressione che, invece, nel centrosinistra lombardo perdurino alcuni pregiudizi storici verso le lingue locali, che costringono anche persone bendisposte come il consigliere Pizzul a dovere argomentare in modo diverso dal proprio sentire.
Mi sembra particolarmente interessante quanto scritto da Silvia Ballarè.
E capisco benissimo le tue perplessità… Se c’è davvero un modo di migliorare la citata legge 482, ben venga, ma attualmente, a livello regionale, mi sembrerebbe una forzatura che non da frutti seri!
Io comunque , che mi sforzo di recuperare/non dimenticare il dialetto milanese da sempre parlato dai miei genitori e zii, scusate ma ignorantemente l’ho sempre chiamato… “dialetto”!!
Olivia
Il Friuli-Venezia Giulia approvò una legge per la lingua friulana TRE ANNI PRIMA che essa fosse riconosciuta dallo Stato italiano con la 482.
E qualche giorno fa il consiglio regionale lombardo ha votato ALL’UNANIMITA’ il riconoscimento della Lingua Italiana per Sordi, anche se non è ancora riconosciuta ufficialmente dall’Italia.
Mi pare che i timori per le forzature giungano un po’ a “targhe alternate”.
La lingua, come insegna Bourdieu, è una delle forme di distinzione sociale più efficaci. Le ragioni sono principalmente tre. La prima: per imparare una lingua è necessario un lungo apprendimento. La seconda: per continuare a parlare correttamente una lingua è necessaria una costante pratica sul campo. La terza: chi impara una nuova lingua da adulto, in genere conserva un accento che tradisce la sua origine linguistica, solo in alcuni casi eliminabile e con grandi sforzi. Per queste ragioni, le lingue che conosciamo e il modo in cui le parliamo dicono molto della nostra origine.
Un esempio. A Milano parlano il Milanese le minoranze autoctone e lo fanno con vanto come un tempo si faceva col latino, mentre in altre città di provincia, dove gli autoctoni sono la maggioranza, il vero motivo di vanto per le persone più istruite è parlare l’Italiano senza accenti e possibilmente qualche lingua straniera.
Escludendo coloro che sono particolarmente portati per le lingue e che vi dedicano volentieri anni di studio, la storia è piena di discriminazioni e di carriere scolastiche e professionali bloccate dalle differenze linguistiche. Chi non parla inglese oggi è simile a chi in Italia parlava solo in dialetto qualche anno fa. I figli delle famiglie più benestanti oggi viaggiano e imparano fin da piccoli lingue che in futuro saranno loro utili per accreditarsi in mondi culturali e produttivi più ampi. In questo senso, il mio timore, è che investire risorse perché i differenti sistemi linguistici italiani emergano dai circoli culturali e tornino ad essere cultura popolare diffusa, sia una resa di fronte al tentativo – fin ora incompiuto – di cancellare quel gap linguistico verso le lingue a radice anglosassone che condanna i paesi latini, tutti, a inseguire, soprattutto per coloro che provengono dalle famiglie meno abbienti. Lo spagnolo è una delle lingue più parlate al mondo ed è facile da apprendere per Italiani e Francesi, ma l’Unione Europea parla ufficialmente Inglese , Tedesco e Francese. Le ragioni sono distintive ed economiche, evidentemente.
Dal punto di vista culturale è bene tutelare tutti i patrimoni linguistici possibili, ma trasformare le lingue e dialetti locali in sistemi linguistici diffusi contribuisce a radicare identità che faticano ad essere compatibili col mondo interconnesso nel quale viviamo. I muri linguistici sono tra i più alti e personalmente investirei risorse nell’apprendimento di sistemi linguistici che permettano di valicarne di nuovi più che di riedificarne di antichi.
Nel concreto, al di là delle considerazioni teoriche, la legge regionale in questione contiene un vizio di fondo: l’articolo sulla lingua lombarda è inserito a forza in un articolato che non tratta alcun tema linguistico e non affronta nessun nodo cruciale sul tema. Per questo è evidentemente strumentale: sostanzialmente innocuo sul piano generale ma fortemente identitario sul piano politico-sociale. La modifica che propone, ovvero di utilizzare l’accezione “sistemi linguistici lombardi”, se accolta, mi farebbe stare relativamente più tranquillo.
Chissà perché però, Marco, questo discorso non vale per i ladini, o per i friulani, o i sardi. Forse per loro è precluso il futuro solo perché viene tutelata (almeno ufficialmente) la loro lingua? E ci terrei a rimarcare che in quei casi viene usato il termine LINGUA, e non elaborate circonvoluzioni per non spaventare i timorosi.
Il fatto che, in soldoni, tutelare il lombardo impedisca di imparare l’inglese non è supportato da alcuna prova. Il mondo, con l’Europa in testa, è ricolma di paesi e territori dove le lingue locali sono tutelate, ma questo non impedisce la conoscenza delle lingue straniere. Casualmente, tra i paesi più rispettosi delle minoranze linguistiche ci sono i norvegesi, gli svedesi e i finlandesi, che sono anche tra i più profondi conoscitori dell’inglese. In modo curioso, tra i Paesi dove la conoscenza dell’inglese è più bassa figurano Francia e Italia, cioè le due nazioni dove il centralismo linguistico (uno stato = una lingua) è più accentuato.
A questo punto forse possiamo azzardare un’ipotesi: non è il plurilinguismo (anche lingua nazionale/locale) a essere d’ostacolo, ma il monolinguismo. Per esempio quello perseguito per decenni dallo Stato italiano, e che di fatto sta sradicando e distruggendo l’enorme diversità linguistica e culturale italiana. E questo è uno degli ultimi frutti avvelenati del nazionalismo.
Per quello che riguarda l’Europa: è proprio lei (sia come UE che come Consiglio d’Europa) a chiedere maggiori tutele per le lingue regionali e minoritarie! E, ancora una volta, i Paesi più restii ad adempiere alle richieste europee sono Italia e Francia. Con una differenza: in Francia i partiti più ostili a una tutela attiva sono quelli di destra, da Sarkozy alla Le Pen. In Italia è il contrario, vuoi per fare un dispetto alla Lega, vuoi per alcuni incrollabili pregiudizi presenti nella nostra cultura.
Sinceramente io credo che sia molto più strumentale e ideologico (o perlomeno allo stesso livello della Lega) intestardirsi così caparbiamente nel negare l’esistenza di altre lingue oltre all’italiano. E mi spiace che il mio partito si renda protagonista di tutto ciò.
Gentile dott. Pizzul,
sono lombardo, lombardofono, laureato in linguistica e attualmente sto svolgendo un dottorato in linguistica. Tra i miei interessi di ricerca c’è la salvaguardia delle lingue in pericolo, tra cui il lombardo.
In risposta alle varie considerazioni riportate nel Suo blog, propongo a Lei e ai Suoi lettori qualche spunto di riflessione riguardo all’opportunità di usare la dicitura “l i n g u a lombarda” nella legge in discussione in Regione Lombardia (PDL 292). Farò del mio meglio nel sintetizzare e semplificare in “poche” righe un argomento complesso che necessiterebbe di molto spazio.
. È certamente utile preparare una dicitura alternativa, da usare nel caso la dicitura “lingua lombarda” venisse rifiutata irrevocabilmente “da Roma” e mi rendo disponibile per discutere tale dicitura alternativa con cura.
. Ma parallelamente a questo, L a i n v i t o a d a p p o g g i a r e con forza e fino all’ultimo l’inserimento della dicitura “lingua lombarda” nel testo della legge, in armonia con la maggioranza di governo regionale. Qui sotto cercherò di spiegare perché vale comunque la pena di insistere.
. Lei fa giustamente notare che la legge 482 esclude le varietà lombarde dalla tutela, non riconoscendole come “lingua lombarda”. Orbene, è proprio in relazione a questo fatto che è necessario capire il senso delle sollecitazioni degli esperti dell’UNESCO, che invece, come sa, annoverano testualmente, tra le lingue in pericolo, proprio “la lingua lombarda”.
In sostanza l’UNESCO ci dà un allarme: ci dice che lo Stato italiano, tramite la legge 482, riconosce e tutela troppo poche delle 32 lingue parlate in Italia, e che è n e c e s s a r i o e urgente riconoscerle tutte ufficialmente PER poterle salvare dall’estinzione imminente. In gioco c’è la “diversità linguistica”, valore difficilmente non condivisibile.
. L’UNESCO assume come un d o v e r e m o r a l e la difesa della diversità linguistica e invita i governi nazionali e regionali a promuovere leggi e iniziative in questa direzione, secondo le modalità proposte in tanta letteratura scientifica internazionale autorevole.
. Per capire la posizione dell’UNESCO dobbiamo sapere che nella letteratura scientifica (e divulgativa) il termine “lingua” ha due significati crucialmente distinti, che purtroppo vengono spesso mischiati e confusi. 1) Il primo significato è “socio-politico” e più o meno può essere sintetizzato così: “una LINGUA è una varietà linguistica che la VOLONTÀ POLITICA di qualche entità governante ha scelto come strumento per l’alfabetizzazione e la comunicazione ufficiale scritta interna alla propria unità amministrativa”. 2) Il secondo significato è “linguistico”: “una LINGUA è una ‘comunità di varietà locali’ molto simili strutturalmente tra loro e perciò mutuamente intelligibili in larga misura. Tale alta somiglianza strutturale può essere spiegata solo come effetto della condivisione secolare o millenaria di modelli di innovazione culturale e linguistica, a sua volta dovuta alla condivisione di strutture politiche, economiche e sociali”. Ognuna di queste “comunità di varietà locali” è ciò che i linguisti chiamano una “lingua storico-naturale”, o più semplicemente “lingua”. Per esempio, l’antico ed estinto proto-indoeuropeo è una “lingua” secondo i linguisti, anche se non ha mai conosciuto nemmeno una forma scritta in generale, né ufficiale né non ufficiale.
. In base a questa (seconda) accezione “linguistica” di “lingua”, il lombardo non può essere in nessun modo considerato un dialetto – cioè una varietà locale – della lingua italiana, per evidenti motivi di diversità strutturale e conseguente bassa intelligibilità col toscano.
. Invece, l’alta mutua intelligibilità interna alla Lombardia e la bassa mutua intelligibilità verso il toscano sono chiari indici dell’esistenza di una “comunità linguistica storica lombarda”, autonoma rispetto alla “comunità linguistica storica toscana”, ergo di una “lingua storico-naturale lombarda” autonoma rispetto alla “lingua storico-naturale toscana”. Queste due comunità linguistiche hanno continuato a esistere ed evolvere autonomamente anche dopo la sovrapposizione di una lingua letteraria italiana comune.
. Ma attenzione: proprio questa bassa intelligibilità, cioè la difficoltà che hanno gli italofoni a capire il lombardo, obbliga noi lombardofoni d’oggi a escludere il lombardo perfino dalle conversazioni informali, anche con i nostri vicini di casa, che sono spesso di origini extra-lombarde. Questo perché da una parte la nostra (recente) italofonia nativa ci permette di parlare comodamente in italiano coi cittadini lombardi originari di altre regioni e che non parlano lombardo; dall’altra parte, questi ultimi non parlano lombardo perché i l b a s s o v a l o r e s o c i o – e c o n o m i c o riconosciuto al lombardo e la nostra (recente) italofonia nativa non li motiva ad apprenderlo. Così i lombardi di oggi percepiscono il lombardo come “poco utile” e marcato negativamente, di conseguenza non lo trasmettono volentieri a figli e nipoti e il lombardo muore. Una bella trappola…
. Per disinnescare questa trappola l’UNESCO dice: “Attenzione! Sarebbe bene che queste lingue storico-naturali non ancora riconosciute (lombardo, siciliano, ligure ecc.) venissero al più presto riconosciute ufficialmente dallo Stato e dalle Regioni. Ciò infatti permetterebbe l’applicazione delle leggi necessarie a incentivare i parlanti a tornare a usare le proprie lingue anche fuori casa, adeguandole, come è sempre stato possibile fare, alle esigenze comunicative del mondo di oggi. Ai parlanti deve essere riconosciuta la possibilità di usare le proprie lingue anche nel mondo del lavoro, per esempio, e nei mass-media, perché questo contribuirebbe ad attribuire e restituire ad esse il necessario valore (e “appeal”) socio-economico che stimola le mamme e le nonne a trasmettere la propria lingua ai bambini. Se non si fa così, tutte queste lingue moriranno presto: purtroppo lo predice una vasta e autorevole letteratura scientifica”.
Dunque, per definizione, la posizione dell’UNESCO è critica nei confronti della legge 482: l’UNESCO ci invita a sostituirla con una legge più adeguata alla realtà pluri-lingue dell’Italia.
. Ecco perché è paradossale rifiutare la dicitura dell’UNESCO “lingua lombarda” – come sembra fare la mia collega dottoranda in un commento qui sopra – motivando che “[il lombardo è un dialetto e non una lingua perché non] può essere utilizzato in tutti i domini funzionali”. C’è un evidente ragionamento circolare (fallacia logica) in questa affermazione. Infatti il lombardo oggi “non può essere utilizzato in tutti i domini funzionali” semplicemente perché… non è riconosciuto ufficialmente! La stessa identica cosa succedeva fino a pochi anni fa alla lingua friulana, ladina, sarda, estone, ucraina, norvegese… E, non così tanto tempo prima, anche alla lingua… toscana!
. Il compito dell’UNESCO è proprio quello di stimolare le istituzioni dei vari singoli Stati a “fare quello che – a suo avviso – dovrebbero fare e non fanno”, nel nostro caso specifico, riconoscere le lingue in pericolo PER proteggerle. Se lo Stato italiano (e ancora prima l’Accademia italiana, che ha il compito di consigliare i politici e l’opinione pubblica!) avessero riconosciuto e sostenessero già da tempo la lingua lombarda, oggi non ci sarebbe bisogno che l’UNESCO richiamasse la loro e nostra attenzione. Dunque è paradossale citare gli accademici italiani e le leggi italiane per contestare l’UNESCO. Anche questo è un ragionamento circolare, fallace.
. Noi tutti siamo stati abituati all’equazione “una nazione = una lingua”. Tuttavia, contro questa idea arbitraria, negata dall’esperienza storica e dall’osservazione scientifica, il Consiglio d’Europa e l’UNESCO hanno recepito dalla letteratura scientifica, fatto proprio e sostenuto il concetto/termine “l i n g u a r e g i o n a l e” (vedi per es. la “Carta Europea delle Lingue R e g i o n a l i e Minoritarie”, del Consiglio d’Europa). Una “lingua regionale” è sì una lingua, ma è anche esplicitamente definita come qualcosa di diverso da una “lingua nazionale” o da una “lingua minoritaria”.
. Concludendo: a mio avviso la dicitura “lingua lombarda”, senza determinazioni ulteriori, sarebbe sufficiente, dunque perfetta per la nuova legge in discussione: a rigor di logica dovrebbe accontentare tutti (una “lingua” non è per forza una “lingua nazionale”).
Però, se questa dicitura trovasse troppa (benché immotivata!) opposizione, allora, piuttosto della formula poco risolutiva che Lei propone (“sistema linguistico lombardo”), La invito a sostenere la dicitura di compromesso “lingua regionale lombarda”. Così facendo chiamerete le cose con il loro nome (“lingua”), stimolerete la riflessione per la sostituzione della legge 482, in linea con l’UNESCO e il Consiglio d’Europa, e permetterete l’applicazione di misure necessarie e urgenti per la tutela dell’identità della NOSTRA regione.
Distinti saluti,
resto a Sua disposizione,
Lissander Brasca
Bangor University (UK)
10 agosto 2016
Se m’è concesso intervenire nel dibattito in quanto persona che ha una formazione linguistica e che da molto tempo s’interessa delle problematiche legate alle lingue minacciate, vorrei sottoporre all’attenzione un paio di considerazioni.
Circa la questione terminologica, secondo lo scrivente che si usi o no il così polisemico termine “lingua” non è poi così importante, molto di più lo è che nella nostra regione si cominci finalmente a far qualcosa (che non può essere che un primo passo) per dar un futuro al suo patrimonio linguistico (sottolineo la parola “patrimonio”, che preferisco senz’altro al troppo ideologizzabile termine “identità”), che include certamente in primo luogo gl’idiomi italoromanzi autoctoni, ma anche, e a mio avviso inseparabilmente, le varietà sinte, e i più svariati idiomo che sono giunti che dall’industrializzazione in poi coi flussi migratori prima interni e ora esterni all’Italia.
Venendo in particolare a quelli che comunemente sono chiamati dialetti lombardi, (esattamente o no, dipende anche qui da quale valore diamo al parimenti polisemico termine “dialetto”), visto che è di essi che si parla, l’investigazione scientifica, pur urgentissimamente necessaria prima che scompaiano gli ultimi parlanti nativi, non può sostituire l’impegno a cercare e modalità di trasmissione di tali idiomi alle generazioni future come patrimonio fruibile e vivibile, e non solo musealizzato in dizionari e atlanti linguistici, e ciò nel contesto d’una progettualità davvero aperta al plurilinguismo — concetto quest’ultimo che volentieri contrappongo a quello di “bilinguismo” inteso oramai “ovviamente” nel senso di “italiano + inglese” che, dato lo strapotere globale del secondo e il persistente disprezzo di qualsiasi idioma “minore” rispetto ad un altro, rischia d’essere solo una fase intermedia verso il monolingjismo inglese (Jersey et Guernesey docent).
Comunque sia, se proprio occorre dare un’etichetta collettiva alla parlate locali della Lombardia, perché non proporre quella di “lingua(/e) collaterale(/i) lombarda(/e)”? Questo termine, d’introduzione recente e frequentemnte applicato per esempio alle “langues régionales” galloromanze di Francia, da una parte riconosce gli stretti legami esistenti (“collateralità”) sia in termini sociolinguistici sia d’affinità genetica (la comune matrice romanza) tra lombardo e italiano, e d’altra parte (“lingua”) sottolinea l’aver a che fare comunque con un sistema compiuto (con le sue specificità ad ogni livello risalenti ad uno sviluppo storico ben distinto), e non già un registro stilistico o una variante regionale della lingua nazionale (come invece i “dialects” nel mondo anglossassone).
Da due equivoci occorre a mio avviso in ogni caso guardarsi: in primo luogo dal considerare “lingua lombarda” sinonimo di “dialetti (tutti e solo) della Lombardia”, giacché la nostra regione non fa eccezione alla regola per la quale l’estensione geografica d’un tipo linguistico/dialettale non coincide con i confini amministrativi e sfuma gradualmente nei tipi vicini (anfizona lombardo-emiliana nel sud della Regione, anfiziona lombardo-piemontese nel Piemonte occidentale …); in secondo luogo di pensare che si possa creare un futuro al patrimonio linguistico lombardo insegnando o ufficializzando un “lombardo standard” (che è altro da una semplice, auspicabile, armonizzazione dei sistemi ortografici) che, nelle condizioni sociolinguistiche attuali, non avrebbe alcun posto nella pratica comunicativa reale e sarebbe sentito come estraneo dai dialettofoni ancora attivi. Troverei più sensato partire dalle varietà effettivamente parlate (come han fatto i Ladini) e solo un un remoto secondo tempo porre il problema d’una “koiné”, che comunque a mio avviso non dovrebbe essere più che una “prima inter pares”, come p.es. lo è il linguadocico nell’insieme occitanico o il nord-hannoverano/holsteinese nel bassotedesco.