La corruzione è tornata purtroppo ad occupare la scena pubblica. C’è il rischio concreto che finiamo per abituarci al fatto che un tasso di corruzione sociale sia inevitabile e che ci rifugiamo dietro all’ipocrisia di chi sostiene che, in fin dei conti, le zone grigie dal punto di vista del rispetto delle regole e delle leggi diventino una sorta di scelta obbligata per poter sopravvivere.
Ho l’impressione che non si abbia il coraggio di riflettere su che cosa significhi corruzione oggi e che finiamo per essere convinti che dichiarandoci onesti e arrabbiati abbiamo chiuso la partita a nostro favore.
Anche l’appello a nuove leggi, autorità o commissioni di controllo suona come una deresponsabilizzazione, una volontà di affidare ad altri il compito di vigilare sulla possibile diffusione della corruzione. Quasi che non sia affare nostro o che basti enunciare la propria onestà per essere immuni da qualsiasi tentazione.
C’è però qualcosa di più profondo e che rischia di minare nel profondo i nostri legami sociali: la corruzione è una sorta di virus che si espande e che nasce da comportamenti quotidiani ormai consolidati come la mercificazione di ogni cosa o l’illusione che basti rispettare regole e procedure per non cadere in tentazione.
E se l’antidoto alla corruzione fosse la bellezza di scoprire e proclamare che non tutto può essere venduto?
Riflessioni che possono apparire un po’ fuori schema, ma che possono aiutare a costruire percorsi per uscire da meccanismi che finiscono per giustificare o farci sopportare una corruzione che rischia di avvolgere un po’ tutti.
Vi invito a leggere, a questo proposito, l’editoriale dell’ultimo numero di “Aggiornamenti Sociali”, firmato dal direttore padre Giacomo Costa sJ.