Come farsi carico delle fragilità delle famiglie che non riescono a pagare le rette dei servizi comunali?
Il dibattito scatenato dalla vicenda di Corsico ha portato a nette prese di posizione all’insegna della necessità di scovare i furbetti o della opportunità di non lasciare indietro nessuno, ma che cosa c’è dietro a queste affermazioni? E, soprattutto, esiste una strada per tentare di garantire i più deboli senza umiliarli e senza scardinare i fragili equilibri di bilancio delle amministrazioni locali?
Ho ricevuto nei giorni scorsi da un’amica una riflessione che mi pare stimolante e sulla quale mi piacerebbe aprire un dibattito.
La tesi è chiara e lineare: aiutiamo chi è in difficoltà, ma chiediamo che si attivi per “restituire” qualcosa alla comunità e dimostrare la sua volontà di integrarsi e non vivere alle spalle degli altri.
Io, nella sostanza, la condivido. Voi che ne dite?
E’ necessario fare un’analisi intelligente e lungimirante sulla “questione rette”, che a mio parere va letta e collocata in un pensiero più ampio, cioè prendendo in considerazione le dinamiche dell’immigrazione e dell’integrazione. Lavoro in un nido comunale in periferia di Milano in cui la presenza di bimbi stranieri ha ormai raggiunto il 70% e le rette gratuite sono la metà del totale. Credo che vada preso in seria considerazione il problema di un welfare che rischia il collasso e, soprattutto, credo sia urgente ragionare anche in termini educativi e di compartecipazione. Mi spiego meglio: per troppo tempo nei servizi educativi/scolastici si è ragionato o con criteri “leghisti”, o con criteri assistenzialistici che ostacolano quasi allo stesso modo l’integrazione e la condivisione di un piano valoriale comune a italiano e migranti. Durante l’iniziativa “Maggio 2013” promossa dal Comune di Milano che ha visto coinvolti i servizi educativi, diverse educatrici hanno come me proposto per i nidi l’istituzione di una retta minima simbolica (50€ al mese?) che metteva nella condizione gli utenti di sentirsi parte di una comunità educante. Nel centro di ascolto parrocchiale in cui opero, capita quotidianamente di fornire indicazioni riguardo la riduzione di rette, bollette e affitti, e la compilazione di domande di sussidi vari. E’ giusto informare dei diritti, ma fatico a immaginare come questo sistema possa stare in piedi. A volte, anche nei nostri ambienti, si è confusa l’accoglienza con l’assistenzialismo, talvolta creando anche dipendenze controproducenti. L’idea del “dare” può gratificarci e farci sentire “buoni”, ma a volte fa persistere il bisogno e diventa quasi un modo inconsapevole di esercitare una sorta di “controllo” del bisogno. Non sai quanta fatica facciamo a far capire alle amiche della S. Vincenzo che è sbagliato dare il pacco viveri per decenni ai nomadi del nostro campo di via Negrotto… Come Caritas ci siamo battuti per una campagna molto più faticosa per sostenere alcune donne (gli uomini sono in carcere, e comunque non collaborano!) nella ricerca del lavoro. Temo che certa sinistra giudichi “poco di sinistra”dire che l’integrazione è imprescindibile dalla condivisione di diritti e doveri reciproci, pena il fallimento, il collasso, la creazione di parassiti che si sentono eternamente stranieri e non responsabili del contesto sociale in cui vivono. Alcuni inviano mensilmente importanti somme al paese d’origine, e poi non pagano spese condominiali e rette… Perché, allora, non immaginare lavori sociali di restituzione, ovvero far rendere in lavoro il corrispondente della retta minima della mensa, che nel caso delle scuole primarie e materne di Milano corrisponde in 1€ a pasto, cioè meno di quanto si spenderebbe a casa? C’è in gioco la dignità dei migranti e la possibilità di un’integrazione reale e feconda, altrimenti è guerra e conflitto sociale. Cosa ne pensi?