Il Sinodo dei vescovi ha concluso la sua riflessione sulla famiglia consegnando il messaggio finale al Papa chiedendo al Santo Padre di valutare “l’opportunità di offrire un documento sulla famiglia, perché in essa, Chiesa domestica, risplenda sempre più Cristo, luce del mondo”.
Avrete tutti seguito le polemiche e i veleni di queste ultime settimane. Ciò che traspare dal documento non è però aria di polemica o divisioni, c’è piuttosto una grande consapevolezza di quanto sia importante mettersi accanto alle famiglie di oggi.
Il punto più controverso, anche nelle votazioni, è stato quello che riguarda il modo di porsi accanto ai divorziati e risposati. Sui giornali avrete letto di come l’articolo in questione sia passato per un voto; andando a spulciare gli esiti delle votazioni ci si imbatte in questi numeri: 178 sì e 80 no. Una bella differenza. I giornali non hanno però torto, perché il Sinodo prevede che l’approvazione passi per una maggioranza dei due terzi, fissata, appunto, a 177.
Il racconto di un Sinodo spaccato a metà regge fino a un certo punto, anche perché praticamente tutti gli altri punti sono stati approvati con maggioranze schiaccianti.
I giornali oggi hanno titolato spiegando come toccherà ai singoli sacerdoti decidere se ammettere o meno alla comunione i divorziati risposati.
Il Sinodo non è una sede deliberante, si limita (per modo di dire) a consigliare il Papa che avrà poi la responsabilità di emanare eventuali direttive.
La vita delle comunità cristiane va comunque oltre le semplificazioni e quanto sintetizzato dal Sinodo mi pare offra un quadro all’insegna di umanità, tenerezza e realismo.
Chi pensa a una Chiesa solo e sempre pronta a giudicare, leggendo le parole del Sinodo credo dovrà ricredersi.
Vi lascio alla lettura del punto “incriminato” e vi indico, in coda, il link al documento integrale.
85. San Giovanni Paolo II ha offerto un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido» (FC, 84). È quindi compito dei presbiteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno.
Inoltre, non si può negare che in alcune circostanze «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» (CCC, 1735) a causa di diversi condizionamenti. Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla «imputabilità soggettiva» (Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a). In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. Perciò, pur sostenendo una norma generale, è necessario riconoscere che la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi. Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi.