Pochi dubitano del fatto che gli investimenti in ricerca e sviluppo possano essere una delle chiavi per uscire dalla crisi. Ma quanto sono efficaci le misure adottate fin qui in Europa e in Lombardia?
Si è discusso di questo in un convegno promosso da ISTAT e Università Cattolica che hanno elaborato un’interessante ricerca sulle performance delle industrie manifatturiere lombarde nell’ultimo decennio. E non sono mancati interessanti considerazioni sull’Europa da parte di autorevoli economisti come Campiglio e Fitoussi.
Se non si vuole cedere alla logica dell’ideologia o a quella della tutela di interessi di piccoli o grandi gruppi, le decisioni politiche dovrebbero basarsi su numeri e dati concreti in grado di fornire una fotografia precisa di quello che accade e di come le decisioni politiche possono cambiarlo.
Il problema, spesso, è che mancano indicatori precisi di quelle che sono situazioni economiche e sociali. E così il rischio che le decisioni politiche siano affette da alti tassi di discrezionalità ideologica o di parte aumenta dismisura.
Per questi motivi è sempre più importante poter disporre di dati e di serie statistiche affidabili per poter misurare e giudicare la realtà che ci circonda.
Nasce in questo contesto un’interessante iniziativa congiunta dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) e dell’Università Cattolica che hanno scandagliato un panel di imprese manifatturiere lombarde tra il 2000 e il 2010 per misurare quanto l’innovazione abbia influenzato le loro performance e quanto abbia contato l’appartenenza a uno dei meta-distretti individuati da Regione Lombardia (biotecnologie alimentari, biotecnologie non alimentari, design, nuovi materiali, moda, ICT).
Il lavoro è stato raccolto in un volume molto tecnico e denso di numeri che restituisce però al decisore politico interessanti considerazioni in ordine alla necessità di proporre politiche di sostegno all’innovazione delle imprese, elemento considerato imprescindibile per conservare quote di mercato e resistere alla crisi.
Il progetto ha consentito di creare un database che ora potrà essere costantemente aggiornato e fornire così elementi per valutare l’evoluzione delle singole aziende, i risultati dei meta-distretti e l’efficacia delle iniziative proposte dalla politica.
Uno strumento interessante, ma anche “pericoloso” perché in grado di smascherare eventuali scelte ideologiche o fondate su interessi consolidati.
Da una sommaria analisi dei dati della ricerca, emerge ad esempio che, più che l’appartenenza a un meta-distretto, per favorire l’innovazione conta la possibilità di poter disporre di adeguati finanziamenti che possano seguire e sostenere le politiche delle singole imprese. Viene confermata anche la scarsa propensione delle MPI all’innovazione e la difficoltà a trasformare gli eventuali passi fatti in tal senso in politiche vincenti di mercato.
Dal convegno che ha presentato il volume è emersa anche la consapevolezza che l’Italia e l’Europa hanno estremo bisogno di industria manifatturiera e che ogni investimento in questo campo non può che essere considerato strategico.
Il professor Luigi Campiglio, dell’Università Cattolica, commentando la ricerca, ha ribadito come la crescita in Italia può arrivare solo con riforme che generano piú investimenti, ma nel nostro Paese gli investimenti industriali continuano a calare, soprattutto nelle PMI; le uniche aziende in controtendenza sono quelle sopra i 200 addetti localizzate al Nord, ma in un tessuto che per il 99% è fatto di PMI questo non basta.
Campiglio ha sottolineato anche come le statistiche europee dimostrano come piú investimenti siano in grado di ridurre la disoccupazione e questo è uno dei motivi che hanno portato la Germania a uscire meglio dalla crisi.
Di Europa ha parlato anche un illustre ospite presente al convegno, Jean Paul Fitoussi, economista francese che ha studiato approfonditamente le contraddizioni di un sistema capitalistico che ha puntato tutto e solo su un postulato entrato in grave crisi negli ultimi anni: la crescita indefinita.
Fitoussi ha sottolineato come sia finito il tempo delle grandi innovazioni di massa e come ormai l’innovazione passi soprattutto dai piccoli cambiamenti quotidiani veicolati dai singoli lavoratori, per questo, secondo l’economista francese, senza job satisfaction non manca un reale incentivo per l’innovazione.
Fituossi ha poi brevemente declinato quelli che, a suo giudizio, sono tre elementi critici irrisolti dell’attuale cammino europeo, precisando di non volersi iscrivere tra gli euroscettici, ma di auspicare un’Unione Europea che possa fare significativi passi avanti, oltre la pure e semplice logica monetaria e degli equilibri di bilancio.
Ecco allora i tre vizi capitali dell’Europa di oggi secondo Fituossi:
– nella zona Euro i Paesi si indebitano in Euro, una valuta che non controllano e per questo la politica industriale, che è fatta soprattutto di interventi sulla valuta, é totalmente paralizzata. Servirebbe dunque una vera politica monetaria comune;
– l’attuale politica monetaria deve valere per tutti, a prescindere dalle condizioni del singolo Stato, viene così a mancare una politica monetaria e fiscale che possa funzionare da ammortizzatore e correggere gli squilibri tra i diversi stati membri;
– le riforme strutturali Eu vanno verso una maggiore flessibilità del lavoro, ma questo non crea alcun incentivo reale all’ innovazione e alla qualità.
A fronte di queste criticità, Fitoussi si è posto una domanda dal sapore provocatorio: 60 anni fa abbiamo cominciato a costruire l’Unione Europea, quanto dovremo ancora aspettare per intervenire sulla disoccupazione giovanile di massa che è diventata una vera e propria piaga del nostro continente?
Qualcuno ha voluto considerare queste parole come acqua portata al mulino degli euro-scettici, io penso possano al contrario essere stimoli fondamentali per costruire davvero un’Europa coesa e capace di futuro.
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