Ieri in Consiglio regionale è stata bocciata una mozione, proposta da SeL, che chiedeva di sollecitare il Parlamento a riprendere l’iter della legge per passare dallo Ius sanguinis allo Ius soli, ovvero procedere alla riforma delle modalità con cui un immigrato può accedere alla cittadinanza italiana. Al di là del fatto che il provvedimento avrebbe avuto un valore più politico e simbolico che sostanziale, la discussione ha fatto emergere posizioni molto distanti tra i diversi partiti. In aula ho ascoltato parole colme di pregiudizi e barriere ideologiche (alcuni interventi leghisti in particolare, per un esempio clicca qui).
Per fortuna, il dibattito culturale è molto più avanzato a livello sociale, come dimostra anche un bel convegno organizzato nei giorni scorsi dalla Fondazione culturale Lazzati a Milano.
Ve ne propongo una breve sintesi curata da Marco Chiappa.L’immigrazione in Italia è un fenomeno strutturale, non di passaggio. Non a caso è divenuto un tema ricorrente sul quale tutti noi siamo abituati a ragionare, sollecitati dai media, dalla politica e anche più semplicemente dalla vita di tutti i giorni. Un interessante convegno organizzato la scorsa settimana dalla Fondazione Lazzati, ha posto al centro del dibattito sull’immigrazione il tema della famiglia, nella consapevolezza che è all’interno di essa che si gioca il legame con le proprie origini da un lato e la sfida dell’integrazione dall’altro. Molti degli immigrati che popolano oggi l’Italia hanno un concetto di famiglia diverso dal modello occidentale contemporaneo. Essa appare innanzitutto regolata da alcune gerarchie ben definite e dal principio del rispetto per l’autorità – del capo famiglia, dei genitori, degli anziani. Spesso considerano parte della famiglia ristretta anche parenti da noi considerati di secondo o terzo grado, nei confronti dei quali mantengono obblighi di aiuto economico reciproco anche molto profondi. I figli, una volta usciti di casa e resisi indipendenti, devono contribuire al sostegno economico dei genitori per ripagarli di quanto hanno ricevuto da piccoli.
A fronte di queste dinamiche, è bene non cadere in facili stereotipi. Le famiglie migranti, non sono né tutte coese e unite, né tutte soggiogate dal padre monarca. Più spesso, dati alla mano, le famiglie migranti condividono i medesimi problemi e le medesime dinamiche che si determinano nelle nostre, con qualche differenza più sostanziale in base al paese di origine e allo status sociale.
L’integrazione delle famiglie migranti si gioca soprattutto con le seconde generazioni, dette anche “generazioni ponte” o “generazioni del sacrificio”. Spesso sono i figli i mediatori culturali dei genitori migranti, grazie alla padronanza della lingua italiana e all’educazione scolastica. E’ soprattutto attraverso la seconda generazione che anche le nostre famiglie si interfacciano con le famiglie migranti, attraverso la scuola o le parrocchie prima e attraverso i matrimoni misti dopo. E’ qui, all’interno di questi contesti, che si gioca la sfida vera per noi non migranti: quella di passare dalla semplice disponibilità all’assistenza al ben più complesso atteggiamento di piena accoglienza. L’accogliere l’altro come pari, senza la superiorità morale e l’afflato di bontà che caratterizza chi assiste nei confronti di chi è assistito, è segno di piena integrazione. E questo vale anche per lo Stato e il dibattito pubblico, spesso più propensi a dispensare aiuto che a riconoscere diritti secondo giustizia.
Non è facile, ma non è più di quanto ci compete per cultura e civiltà.