Ho letto con grande interesse l’appello per un nuovo progetto sulla città di Milano rilanciato quest’oggi dal “Corriere della Sera”.
Il vice direttore Giangiacomo Schiavi, l’economista Marco Vitale e lo psicopedagogista Fulvio Scaparro fanno sintesi del dibattito comparso sulle pagine del Corrierone negli ultimi mesi e rilanciano la necessità di restituire a Milano la sua dignità di città simbolo e traino dell’intera Italia.
Un appello importante che mira ad andare oltre quella che possiamo definire frammentazione di una città che ha perso la sua anima e la sua capacità di pensarsi come una comunità in grado di produrre coesione e innovazione.
Milano si è frantumata in una miriade di schegge (quasi fossero cocci di un manufatto prezioso caduto rovinosamente a terra) che faticano a riconoscersi a vicenda. Sono frammenti che pretendono di essere autosufficienti, ma che si scoprono giorno per giorno fragili e impotenti di fronte alla sfide che la crisi e la globalizzazione impone.
Milano deve tornare protagonista del suo destino, scrive il Corriere, ma non lo farà se non grazie ai milanesi, non solo quelli illustri e noti interpellati dai media per dire la loro su ogni argomento, ma soprattutto grazie ai cittadini normali di ieri (gli anziani), di oggi e di domani (tra questi anche molti stranieri).
L’ampio articolo di oggi (vi invito a leggerlo su www.corriere.it) richiama un decalogo e cinque punti che non sto qui a riassumere, ma che offrono una provocazione interssante che fa anche da titolo alle due pagine: “Manifesto per Milano – il coraggio e l’orgoglio”.
Non so se è stata una scelta consapevole, ma l’aver fatto il verso al famoso pamphlet della Fallaci (La rabbia e l’orgoglio) mi pare una scelta efficace che indica anche una strada possibile. Dalla rabbia, sentimento che caratterizza molti atteggiamenti dei milanesi di oggi, dobbiamo passare al coraggio. E’ compito di tutti, nuovi e vecchi milanesi, anziani e giovani cittadini, professionisti e disoccupati… E’ compito anche dei politici che devono smetterla di considerare la città una sorta di proprietà privata o terra di conquista e giocarsi davvero nel rimettere assieme i cocci con tutto il coraggio e l’orgoglio che speriamo sia loro rimasto.
Oh, che gaffe! Ho usato parlando di politici la seconda persona plurale, ma ormai devo usare la prima.
Rifo: E’ compito anche di noi politici che dobbiamo smetterla di considerare la città una sorta di proprietà privata o terra di conquista e giocarci davvero nel rimettere assieme i cocci con tutto il coraggio e l’orgoglio che speriamo ci sia rimasto.
Ci proveremo. Promesso.